La storia del corpo degli alpini ha inizio nel 1872, quando il giovane Regno d’Italia dovette affrontare il problema della difesa dei nuovi confini terrestri, che dopo l’infelice guerra del 1866 contro l’Austria, coincidevano quasi interamente con l’arco alpino.
Da poco, infatti, si era compiuta l’unità d’Italia con Roma capitale ed il nuovo stato si trovava a dover affrontare una situazione internazionale molto delicata per il riaccendersi di tensioni con la Francia e con la potente monarchia Asburgica, ancora potenzialmente ostile dopo la cessione del Veneto all’Italia.
La mobilitazione dell’Esercito e la difesa del territorio nazionale erano state, fino allora, previste nella pianura padana in corrispondenza del vecchio Quadrilatero perché le Alpi, nella concezione strategica del tempo, non erano ritenute idonee a operazioni di guerra. La prima linea difensiva vera e propria era, a quel tempo, imperniata sulle posizioni di Stradella – Piacenza – Cremona in corrispondenza del fiume Po.
L’idea di affidare la difesa avanzata della frontiera alpina ai valligiani del posto anziché ricorrere a truppe di pianura, che oggi appare semplice e logica, a quei tempi era assolutamente originale, quasi rivoluzionaria.
Gli esperti militari del tempo erano convinti che una reale difesa sulle Alpi non fosse possibile e che un eventuale invasore dovesse essere fermato e ricacciato solo nella pianura padana.
L’ideatore del Corpo degli Alpini fu l’allora capitano di Stato Maggiore Giuseppe Domenico Perrucchetti, nato a Cassano d’Adda, in provincia di Milano il 13 luglio 1839 (a vent’ anni fuggì dalla Lombardia, allora sotto la dominazione austriaca, per arruolarsi volontario nell’esercito Piemontese).
Studioso di storia, conosceva molto bene il nostro confine per avere, negli anni precedenti, effettuato numerose ricognizioni sui passi dello Spluga, dello Stelvio, sulle Alpi Carniche e Retiche, il Perrucchetti conosceva le gesta delle milizie montanare che, fin dai tempi dell’Imperatore Augusto (I,II, e III Legio Alpina Julia), si erano formate sulle Alpi e le avevano difese dalle invasioni barbariche.
Conosceva il perfetto organismo delle milizie paesane create da Emanuele Filiberto, l’organizzazione ed i compiti dei “Landesschützen” tirolesi, truppe scelte preposte alla difesa dei confini montani del Tirolo, quelle dei “Cacciatori delle Alpi” delle campagne del nostro Risorgimento e le famose imprese dei Volontari Cadorini di Pier Fortunato Calvi che, nel 1848 per difendere la loro terra dall'invasione austriaca, si trasformarono in audaci e tenaci combattenti.
Prendendo lo spunto da quegli studi ed esperienze, nel 1871 il geniale Ufficiale, appassionato di montagna studioso di operazioni militari in zone alpine, redasse una originale memoria nella quale sosteneva e dimostrava il concetto che la difesa di primo tempo (copertura) del confine alpino dovesse essere affidata a presidi di soldati nati in montagna, pratici dei luoghi sin dalla prima giovinezza e sicuramente ben motivati nel caso avessero dovuto effettivamente difendere i propri cari e i propri beni.
Un altro elemento fondamentale su cui il Perrucchetti fondava il suo studio erano i vantaggi, ai fini della celerità e della semplicità di mobilitazione, che il reclutamento regionale presentava, nonché i legami personali tra gli appartenenti ai reparti e le comunità da difendere.
Lo studio del Perrucchetti pubblicato, nel maggio 1872, sulla Rivista Militare Italiana, fu apprezzato e subito condiviso dal generale Cesare Ricotti Magnani, Ministro della Guerra nel governo di Quintino Sella, che capì l’importanza della difesa dei valichi alpini e la necessità di disporre, nell'ambito della fanteria, di una nuova specialità, particolarmente addestrata per la guerra in montagna.
Ricordo che il gen. Ricotti Magnani, fondatore a Torino nel 1864 del CAI con Quintino Sella, fu l’uomo che in pochi anni, trasformò radicalmente l’organismo militare italiano attuando una profonda ristrutturazione dell’Esercito. Per avere una Nazione a livello europeo egli introdusse, con opportuni correttivi, il sistema prussiano con la ferma breve (tale veniva considerata allora quella di tre anni) e il reclutamento nazionale e non regionale come attuato in Prussia. Per gli alpini era previsto il reclutamento regionale.
Il ministro, per evitare l’ostacolo della Camera dei Deputati, che non vedeva di buon occhio nuovi oneri finanziari, ricorse ad un espediente: inserì negli allegati del Regio Decreto n°1056 del 15 ottobre 1872 che prevedeva un aumento dei Distretti Militari, la costituzione di 15 nuove compagnie distrettuali permanenti, con il nome di “Compagnie Alpine” (per un totale di 2000 uomini), da dislocare in alcune valli della frontiera occidentale e orientale.
A ciascuna delle neo nate compagnie venne assegnato un mulo con una carretta per il trasporto dei viveri e dei materiali.
Come arma individuale agli alpini venne dato in dotazione il fucile Wetterli modello 1870 (dal nome dell’inventore, un meccanico svizzero).
Così nacquero gli “Alpini”, mascherati da generici distrettuali, fra le pieghe di un Decreto Reale firmato a Napoli da Vittorio Emanuele II, ma con già sulle spalle un fardello di compiti e responsabilità pesanti quanto il loro zaino di allora e di sempre.
La divisa era quella della fanteria sino al marzo del 1873.
Il privilegio di costituire i primi reparti alpini toccò alla classe del 1852, ovviamente denominata “classe di ferro”.
A queste truppe speciali, nel 1874, fu posto sul capo un cappello di feltro nero a bombetta, con una stella di metallo a cinque punte e coccarda tricolore, ornato con una penna nera sul lato sinistro, il quale divenne subito l’emblema araldico dei soldati della montagna.
Nel giro di qualche anno le 15 compagnie diventarono 36, su organico di guerra, ed i battaglioni dieci, che presero il nome di valli, monti e città, per un totale di 9.090 alpini.
Nel 1882, a dieci anni dalla nascita del Corpo, per esigenze operative si ebbe un più consistente ampliamento del Corpo, con la costituzione dei primi sei reggimenti alpini: il 1°, il 2°, il 3°, il 4°, il 5°e il 6°.
Il cappello alpino subì altre modifiche: il fregio a stella fu sostituito con un fregio di metallo bianco raffigurante un’aquila ad ali spiegate sormontata da una corona reale: appoggiata su una cornetta sovrapposta a due fucili incrociati e contornata da una scure e una piccozza, con rami di quercia e di alloro, essa rappresentava il simbolo di potenza e audacia del Corpo degli Alpini; sul tondino del fregio venne applicato il numero del reggimento e sul cappello della truppa le nappine mutavano di colore a seconda dei battaglioni e cioè bianco (1° battaglione), rosso (2° battaglione), verde (3° battaglione), turchino (4° battaglione). Per identificare gli ufficiali superiori si stabilì di guarnire il cappello con una penna bianca.
Nel 1883 alle truppe di montagna vennero date le “Fiamme Verdi” a due punte e si incominciò a distinguere fra la fanteria alpina e l’artiglieria da montagna. Anche il cappotto con lunghe falde, molto ingombrante, venne sostituito con una mantellina alla bersagliera di colore turchino scuro mentre le scarpe basse furono sostituite da stivaletti alti con legacci simili a quelli usati dai montanari.
I reparti alpini, in considerazione del valore strategico dell’arco alpino, furono potenziati mediante una serie di provvedimenti di carattere ordinativo:
Nati per combattere sui ghiacciai e sulle alte vette delle Alpi, gli alpini per uno dei tanti e curiosi scherzi della storia, ebbero il “battesimo del fuoco” sulle roventi ambe africane, nelle campagne di Eritrea del 1887 e del 1896, ove mostrarono il loro valore e le loro qualità di fieri soldati nella sfortunata battaglia di Adua del 1° marzo 1896, sull’Amba Rajo, e dove il 1° Battaglione Alpini d’Africa, comandato dal tenente colonnello Davide Menini, si immolò sul posto assieme a molti artiglieri. Dei suoi 954 alpini ne sopravvissero solo 92.
In quella tragica giornata, oltre al comandante di battaglione, caddero alla testa dei reparti il capitano Pietro Cella, del 6° Reggimento Alpini, prima medaglia d’oro al valore militare degli alpini e quattro valorosi ufficiali di artiglieria da montagna anch'essi decorati con la medaglia d’oro al valore militare i quali caddero eroicamente assieme ai loro artiglieri sparando sino all'ultimo colpo.
Molteplici furono le innovazioni e i mutamenti adottati all'equipaggiamento e alle armi agli inizi del ventesimo secolo.
Da non dimenticare il novembre del 1902, data importante per la Specialità; dopo un periodo di intense prove effettuate presso il 3° Reggimento Alpini, venne dato in dotazione ai reparti il nuovo e veloce mezzo di locomozione su neve: gli ski, che permisero di risolvere il problema del movimento dei reparti sui terreni innevati.
Vale la pena di ricordare gli esperimenti effettuati dal Battaglione Alpini Morbegno del 5° Reggimento Alpini, nel luglio del 1905, per l’adozione di una uniforme di colore grigio per mimetizzare maggiormente i combattenti che portavano uniformi luccicanti e multicolori.
La nuova uniforme fu esperimentata a Bergamo, sede del Battaglione Alpini Morbegno, da un plotone della 45a compagnia, denominato il “Plotone grigio”, al comando del tenente Tullio Marchetti, trentino, che da tenente colonnello sarà poi il capo ufficio informazioni della Prima Armata e, dopo il felice esito delle prove effettuate con il resto del battaglione, nel 1908 la nuova uniforme fu adottata da tutto l’Esercito Italiano.
Con l’adozione della nuova uniforme la vecchia “bombetta” nera veniva sostituita con un cappello di feltro colore grigio verde che a tutt’oggi è ancora in dotazione alle Truppe Alpine.
Nell’ottobre 1911 gli alpini parteciparono alla guerra Italo – Turca con dieci battaglioni e 13 batterie di artiglieria da montagna. Al comando dell’8° Reggimento Alpini Speciale (perché costituito con i Battaglioni Alpini Tolmezzo, Gemona, Feltre e Vestone) c’era l’indimenticabile Colonnello Antonio Cantore, che cadrà da eroe sulle Tofane nel luglio del 1915, colpito in fronte da una pallottola.
Secondo una leggenda alpina tutti quelli che muoiono con il cappello alpino in testa salgono nel “Paradiso di Cantore” vicino all’eroico generale, comandante l’Armata delle “Penne Mozze”. Oggi continua, anche per noi, ad accogliere veci e bocia.
Nelle tradizioni degli Alpini non esistono comportamenti o sentimenti sleali: il nemico si combatte ma non si disprezza.
Pochi anni dopo l’Italia entra in guerra contro l’Austria – Ungheria.
Alla Prima Guerra Mondiale gli Alpini, i “figli dei monti” come li chiamava Cesare Battisti, parteciparono con 88 battaglioni e 66 gruppi di artiglieria da montagna per un totale di 240.000 alpini mobilitati.
Quarantuno mesi di lotta durissima e sanguinosa costituirono per gli Alpini un’epopea di episodi collettivi ed individuali di altissimo valore e di indomita resistenza, di battaglie di uomini contro uomini, di uomini contro le forze della natura, di azioni cruente e ardimentose sulle alte vette dalle enormi pareti verticali, di miracoli di adattamento alle condizioni più avverse e nelle zone alpinisticamente impossibili.
Alla metà di giugno del 1915 gli Alpini effettuarono la prima leggendaria impresa, la conquista del Monte Nero, davanti alla quale anche i nostri avversari così si espressero: “Giù il cappello davanti gli alpini! Questo è stato un colpo da maestro”.
Dal Monte Adamello al Monte Nero, dalle Tofane al Carso, dalla Marmolada al Monte Ortigara, dallo Stelvio al Monte Grappa, dal Monte Pasubio al Passo della Sentinella, aggrappati alla roccia con le mani e con le unghie per lottare contro uno dei più potenti eserciti del mondo, costruirono con mezzi rudimentali strade e sentieri fino sulle cengie più ardite, combatterono memorabili battaglie di mine e contromine, portarono a termine brillanti colpi di mano espugnando posizioni ritenute imprendibili e aggiunsero alle fantastiche leggende delle Dolomiti storie di giganti della lotta in montagna.
Il contributo dato dagli Alpini nella Grande Guerra è ampiamente evidenziato dalle seguenti cifre: ufficiali, sottufficiali e alpini morti 24.876, feriti 76.670, dispersi 18.305.
Un famoso scrittore inglese, Rudyard Kipling, che perse l’unico figlio sul fronte francese, a Ypres, venuto in visita alla fronte italiana nel corso della Prima Guerra Mondiale, espresse questo giudizio sugli alpini: “Alpini, forse la più fiera, la più tenace fra le Specialità impegnate su ogni fronte di guerra.
Combattono con pena e fatica fra le grandi Dolomiti, fra rocce e boschi, di giorno un mondo splendente di sole e di neve, la notte un gelo di stelle. Nelle loro solitarie posizioni, all’avanguardia di disperate battaglie contro un nemico che sta sopra di loro, più ricco di artiglieria, le loro imprese sono frutto soltanto di coraggio e di gesti individuali. Grandi bevitori, svelti di lingua e di mano, orgogliosi di sé e del loro Corpo, vivono rozzamente e muoiono eroicamente”.
E dopo la Prima Guerra Mondiale gli alpini, nel gennaio del 1936, inquadrati nella Divisione Pusteria, vengono inviati in Etiopia a combattere sugli assolati e aspri rilievi etiopici contro le truppe di Hailé Selassié. Sono circa 14.000 uomini inquadrati nella Divisione Pusteria. Validissimo il contributo degli alpini che parteciparono alle operazioni più importanti: dalla conquista dell’Amba Aradam, all’occupazione dell’Amba Alagi e alla battaglia di Mai Ceu il 31 marzo 1936.
Durante la Seconda Guerra Mondiale gli Alpini conquistano altre glorie. Sono presenti su cinque fronti di guerra assai diversi per caratteristiche morfologiche e strategiche: sulle Alpi Occidentali (dal 10 al 25 giugno 1940), in Grecia (dal 28 ottobre 1940 al 23 aprile 1942), in Jugoslavia (dal luglio 1941 al settembre 1943), in Russia (dal gennaio 1942 al marzo 1943) e, infine, dal settembre 1943 durante la Guerra di Liberazione d’Italia per riconquistare la libertà e l’indipendenza nazionale.
Una storia, quella degli Alpini, fatta con il sangue lungo un itinerario costellato di croci. In Russia, gli Alpini, in una marcia eroica (oltre 700 Km. a piedi), ecatombe di alpini, sotto il flagello del freddo e contro un nemico molto forte e determinato, affrontarono durissimi sacrifici e sofferenze che la nostra mente oggi non riesce nemmeno a immaginare.
Eroico fu il comportamento degli Alpini, che a Nikolajewka, riuscirono a rompere il cerchio di ferro e di fuoco dei soldati dell’Armata Rossa.
Inferiori di numero, di equipaggiamento e di armamento, gli Alpini, grazie all'ineguagliabile spirito di Corpo, all'attaccamento alla loro terra, ai loro affetti, alla generosità che anima tutti i figli della montagna, seppero soffrire con dignità e onore, compiendo infiniti gesti di umanità e di fratellanza verso tanti fratelli stremati dal gelo, dalle ferite, dalle fatiche, dalla fame e dal nemico implacabile.
Durissimo fu il prezzo pagato dalle Penne Nere per aprire ai superstiti la via della libertà: su 57.000 uomini ben 34.170 non tornarono a casa.
Di essi, Don Carlo Gnocchi – l’indimenticabile cappellano militare degli alpini in Russia – apostolo della fede ed eroico sacerdote delle penne nere e che sarà beatificato dal Papa, al termine di quella terribile battaglia, disse: “Tutti hanno compiuto opera veramente sovrumana. Dio fu con loro, ma gli uomini furono degni di Dio”.
Oggi, nel luogo dove sessantaquattro anni fa si svolgeva una guerra sanguinosa e terribile, sorge un bellissimo asilo che ospita 150 bambini russi.
L’Associazione Nazionale Alpini, per ricordare il sacrificio di migliaia di Alpini rimasti per sempre in terra di Russia, animata da una forte tensione morale e dalla volontà di legare i ricordi del passato a un solidale impegno rivolto alle generazioni di oggi, ha costruito a Rossosch (luogo in cui nel 1942 c’era la sede del Comando del Corpo d’Armata Alpino) un meraviglioso asilo, in segno di solidarietà e di fratellanza fra i popoli.
Là dove 64 anni fa risuonavano terribili grida di guerra oggi si elevano gioiosi canti di pace.
L’asilo di Rossosch è un monumento vivente alla pace e alla fratellanza fra i popoli. Chi ha sofferto nell'anima e nella carne, come moltissimi alpini e soldati di ogni arma e servizio la violenza spietata della guerra, conosce l’immenso valore della pace, della solidarietà e della giustizia.
Anche durante questo immane conflitto europeo, iniziato dall'Italia in uno stato di impreparazione militare che determinò una riduzione delle capacità operative delle Grandi Unità, gli alpini si batterono con valore e grande dignità.
La firma del trattato di pace e il successivo ingresso dell’Italia nella NATO dette il via alla ricostituzione dell’ Esercito Italiano. Nell’arco di otto anni, vennero ricostituite, cinque Brigate Alpine: Julia, Tridentina, Cadore, Orobica e Taurinense, formate su un reggimento alpini, un reggimento artiglieria da montagna e supporti tattici e logistici.
Durante la lunga stagione della guerra fredda gli alpini erano in prima linea, a difesa dei confini orientali, nel contesto del grande sforzo alleato di contenimento del blocco sovietico che minacciava l’Europa Occidentale.
Dopo la fine della contrapposizione tra Russia e Stati Uniti d’America, le truppe Alpine, come del resto tutte le forze armate italiane, hanno subito profonde trasformazioni, prima con la chiusura di due brigate su cinque (Cadore e Orobica) e la trasformazione della Tridentina in un comando di proiezione, utilizzabile solo in caso di necessità, poi con l’abolizione della leva obbligatoria, vero e proprio serbatoio per i reparti alpini che attingevano per i loro reparti dai giovani delle regioni del nord Italia più l’Abruzzo.
Le due Brigate rimaste, cioè la Taurinense e la Julia, composte di solo soldati professionisti, sono state più volte impegnate in giro per il mondo nei nuovi scenari che si sono aperti dopo l’11 settembre, teatri di guerra al terrorismo, di peace-keeping e di salvaguardia della democrazia, sempre con un occhio di riguardo ai rapporti con la popolazione dei paesi dove hanno operato.
Uomini fieri ed infaticabili, uomini ricchi di fede, temprati dalla lotta con la natura, dotati di un luminoso patrimonio spirituale ereditato dai propri padri, gli Alpini hanno portato sempre intatto nella parentesi del servizio militare, queste preziose qualità civiche ed umane, indispensabili per chi deve assicurare la difesa della Patria.
Non c’è pagina della storia militare italiana dall’ultimo ventennio del secolo diciannovesimo ad oggi che non ha visto in prima fila gli Alpini: ne fanno fede le 207 medaglie d’oro al Valore Militare, le 4 medaglie d’oro al Valore Civile e una medaglia d’oro al Merito Civile della Croce Rossa Italiana che fregiano il glorioso Labaro Nazionale dell’Associazione Nazionale Alpini e che racchiude e sintetizza la prestigiosa storia del Corpo degli Alpini.
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